Alfredo Ronci: Lénárd Sándor: Roma 1938-1943. Dialoghi clandestini del tempo di guerra

recensione apparsa in Lankelot (rivista online), 2009.


Prendete un vocabolario qualsiasi e cercate la parola 'bagnasciuga'. Il grande dizionario Garzanti dice: parte dello scafo di un natante tra la linea di minima e di massima immersione, che perciò è bagnata o asciutta a seconda del carico imbarcato o dello stato del mare. 2. impropriamente, tratto della spiaggia dove arriva il flusso delle onde; battigia.
Chissà quanti di voi, 'impropriamente' hanno sempre definito la battigia il bagnasciuga. Lo fece anche il mascellone ebefrenico di gaddiana memoria, Mussolini Benito, che, in un discorso del 1943, poco prima dell'invasione degli Alleati affermò che qualunque tentativo di sbarco alleato in Sicilia verrà congelato su quella linea che i marinai chiamano bagnasciuga.
E da quell'incauta dichiarazione il duce fu chiamato appunto il Bagnasciuga secondo quanto ci riferisce Sándor Lénárd in questo suo libro straordinario. Lo scrittore ungherese fuggì dall'Austria, dove si era stabilito nonostante fosse nato a Budapest, per approdare a Roma con un visto turistico di tre mesi, una valigetta, praticamente senza documenti, senza soldi, senza conoscenti, per iniziare una 'nuova vita'. E la vita che offre la capitale è misera e la città sopravvive in un perenne stato di polizia e sotto una cappa velenosa di sospetti: I caffè di Piazza Venezia sono rimasti deserti come se la piazza appartenesse ai lebbrosi. I negozi vicini ricevono un regolare risarcimento. Gli appartamenti sfitti nelle case lungo il percorso, li affitta la polizia e ne mura le finestre. Costa meno della sorveglianza speciale.
Il quadro che Lénárd fa della situazione italiana è spaventoso (un'unica pecca: 'muovendosi' in quel 1938 non è sfiorato, e non sappiamo se lo sarà poi, perché la sua cronaca si limita appunto a quell'anno e successivamente al '43 senza linea di continuità, dalla questione dei primi provvedimenti razziali contro gli ebrei). Non c'è libertà di stampa, né di espressione nonostante il quotidiano viva una sommessa rappresentazione di 'normalità': E' nata una nuova scienza: la scienza della lettura del giornale - la paragonerei alla teoria degli scacchi o alla dogmatica di alto livello. Il lettore leggeva la notizia sul giornale, tentava di ricostruirne l'origine e, dalla differenza tra la realtà e la sua rappresentazione, cercava di tracciare la linea della politica del giorno (un po' come fanno ora gli spettatori dei tg berlusconiani di regime).
Lénárd trascorre il suo tempo arrabattandosi: s'inventa il mestiere di 'misuratore di pressione' per poter mettere in tasca a fine giornata il minimo per il proprio sostentamento alimentare, ma non rinuncia a frequentare luoghi di un certo 'spessore' e frequentati da altri rifugiati o clandestini (il caffè Greco per esempio) per non mortificare il proprio io e il proprio desiderio di normalità anche culturale.
Lo scrittore ungherese ama Roma, ma ancor di piů i romani dei quali ci consegna un ritratto forte ed antifascista, paziente, ma mai prono, gagliardo in quella falsa e 'capitolina' acquiescenza, ma mai partecipativo: Pur non santo, ma nemmeno fascista - pensa il cittadino romano. Questo lo sanno anche gli inglesi, quelli sanno tutto. E' segreto di Pulcinella che la folla che applaude con entusiasmo sotto il balcone di Palazzo Venezia è fatta sempre dagli stessi ottomila agenti segreti. Aggiungiamo, nemmeno italiano. (pag. 141). Oppure: Così si può capire che quelli che abitano qui non maledicono gli americani, che attaccano stazioni di smistamento (e che aggiungiamo noi, massacravano anche civili), ma chi da vent'anni distrugge Roma.
E nella parte finale del libro, in quel '43 che decreta la fine del regime carnevalesco con le sue figurine da teatro del varietà (E vedi quel piccolino piů in là? E' Storace, il segretario del partito. Dicono che è un deficiente. Lo deducano dal fatto che sta al suo posto da otto anni. Il Duce non sopporterebbe per tanto tempo uno che abbia un parere. L'avrebbe già cacciato.) Lénárd ci ricorda come l'apparato di cartone (chi ricorda i finti fondali montati lungo via dei Fori Imperiali durante la visita di Hitler?) di quella politica infame non avesse preveduto alcunché: Il fascismo italiano non si preparava alla guerra. Non si preparava nemmeno alla pace. Non si preparava a niente, a parte le feste popolari e le celebrazioni. Dell'epoca di Augusto in cui si credeva di rispecchiare, ha preso sul serio solo le circenses, visto che al pane ci pensava in ogni caso il buon popolo laborioso.
Si diceva all'inizio: libro straordinario e appassionato di una lungimiranza che, se solo qualche burocrate di partito avesse avuto in minima parte, forse avrebbe aiutato a salvare il poco salvabile di una dittatura insensata.

P.S. Siamo di fronte ancora una volta ad un capolavoro e ad un piccolo editore. Traetene le debite considerazioni.


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