La letteratura ungherese è sempre stata periferica rispetto a quella europea, non solo per un fatto geografico, ma a causa soprattutto della lingua, che presenta notevoli difficoltà a livello di traduzione. Non è, dunque, almeno per quanto riguarda il nostro paese, molto frequentata, a differenza degli anni '30-'40, allorché al pubblico italiano erano familiari scrittori come Kormendi e Zilahy o registi come Neufeld (le famose "mille lire al mese"). Questo era reso possibile per un'affinità ideologica dei regimi (Mussolini in Italia, Horthy in Ungheria), che permetteva una reciprocità di scambio culturale se non una collaborazione.
Anche Sandor Marai all'epoca era letto, poi cadde nell'oblìo e solo recentemente è stato riscoperto. E di un altro autore, a mio avviso non meno importante, è ora in atto il recupero, grazie ad una piccola casa editrice che, pur essendo specializzata negli studi storici, ha voluto provare un altro filone, squisitamente letterario. E' la Ciolfi di Cassino, che i lettori già conoscono per la mia recensione ai volumi sui Normanni, e lo scrittore ripescato è Sandor Lenard con il suo "Roma 1938-1943 dialoghi clandestini del tempo di guerra". E' una vera "chicca", il profilo di una città e della sua gente alla vigilia del Caos (e anche durante), un profilo insieme denso e sfumato perché, nelle precise annotazioni di Lenard, si avverte la sua matrice mitteleuropea, di cittadino che non ha confini.
Il giovane Sandor giunge a Roma dall'Austria dopo l' "Anschluss", per sfuggire al nazismo, preferendo un'altra dittatura che, pur oppressiva, non è sanguinaria come quella hitleriana. Qui, nonostante il Minculpop, l'Ovra, la "portierocrazia" ("l'inquilino non teme il Duce ma il portiere. Lui è l'occhio dello Stato") e tutto l'agitarsi di divise, in uno sfondo di braccia tese e di "alalà" a polmoni spiegati, si può tranquillamente sopravvivere. Trova una camera in affitto, si arrangia facendo consulenze mediche (è laureato) e frequenta la società dei fuoriusciti, che si raduna periodicamente al Caffè Greco. Ed inizia la sua conoscenza di tutto un microcosmo umano che ben esprime il particolare momento storico, sullo sfondo di una Roma ogni giorno da lui piů amata ("strana, meravigliosa, eterna città").
Ecco Aldo, che lavora per il Minculpop, il quale lo inizia ai segreti della propaganda, a come si fabbrica l'immagine di un paese unito corpo ed anima al Capo. Ma altre figure emergono dal libro, Lewis il poeta, Sommer, in perenne attesa del visto, Jurics, l'ex circense, e, naturalmente, la gente minuta, il popolo dell'Urbe con tutto il suo colore e calore (quella "romanità" basata soprattutto sulla cultura del vicolo, che oggi non esiste piů). Ma i tempi sono duri e Sandor si ritrova a fare il clochard, dormendo sulle panchine e rimediando il mangiare quando può, grazie allo "sfigmamometro" lasciatogli da un compatriota. Misura la pressione e si arrangia, alternando duetti al piano con un nobilotto romano.
E la vita scorre in questo che è sì un romanzo autobiografico, ma con il gusto del saggio antropologico, ove emerge la vera anima di una città, oltre la retorica di regime ("misurando la pressione ho conosciuto gli odori di Roma" e, piů prosaicamente, "che meraviglia questa pasta in bianco col parmigiano! L'istituzione piů democratica del fascismo"). Ma la tempesta è lì per scatenarsi e Sandor annota amaramente che "l'umanità impara una nuova lezione: la lezione delle stragi progettate nero su bianco, dietro la scrivania". E siamo nella seconda parte del libro, anno 1943, i bombardamenti, l'avanzata degli alleati, la fame e loro, Sandor e Diana, la sua compagna, in una mansarda al Babuino: una vita da bohémiennes in una città che vedrà ancora una volta cambiare il corso della sua storia.
Un profilo denso e sfumato dicevo all'inizio e lo confermo, "Roma 1938-1943" è un po' come quei quadri fiamminghi, dove alla messa a fuoco del primo piano iniziale corrisponde un gioco prospettico di minuzia descrittiva. Lo stile sciolto, con un sapore vagamente picaresco (ed una certa ironia fra le righe, anche nei momenti piů cupi), rende il libro di agevole lettura. Ma è quel suo rivelarsi una vera miniera di notizie - grandi e piccole - a colpire l'attenzione. Una in particolare: l'inaugurazione della prima moschea di Roma da parte del Duce. Ovvero la posa della prima pietra, accanto a dove era l'obelisco di Axum, e Mussolini, "Spada dell'Islam", che la percuote tre volte. Per giustificare l'operazione, ideata dal Minculpop, "La difesa della Razza" scriveva di "elementi ariani tra gli arabi di Tripoli" e "sangue longobardo nelle vene degli indigeni di Biserta". La prima moschea d'Italia voluta dal fascismo. L'Islam e il Duce. E ora chi lo dice a Borghezio?
"Roma 1938-1943 dialoghi clandestini del tempo di guerra",
di Sandor Lenard, Ciolfi Editore,
pagg.260, euro 16,00. www.ciolfieditore.it
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